Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito è uscito ufficialmente dall’Unione europea. Dopo oltre tre anni dal referendum del 23 giugno 2016, finalmente la Brexit si compie. Accantonando le ripercussioni politiche ed economiche dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, in questo articolo intendiamo mostrare quanto il voto britannico abbia inciso linguisticamente sulle nostre vite.
Inevitabile partire proprio dalla parola macedonia Brexit, formata dalla fusione di British + Exit che, in realtà, deriva a sua volta dal neologismo Grexit coniato nel 2012 da due economisti di Citigroup. Forse in pochi si ricorderanno che nel 2012 l’Economist aveva introdotto senza particolare successo il termine Brixit. Inoltre, si è discusso a lungo sul genere da attribuire a questa parola, tanto da scomodare più volte l’Academia della Crusca. Anche se, con il senno di poi, sappiamo benissimo che tra i parlanti si è affermata la forma femminile, riportiamo il parere della professoressa Anna M. Thorton sul sito dell’Accademia della Crusca:
“In conclusione, dovendo formulare una raccomandazione, mi sembra preferibile accordare Brexit al femminile, dato che la componente exit è etimologicamente un sostantivo corrispondente all’italiano ‘uscita’ (nonostante il fatto che sia analizzato come verbo da alcuni parlanti italiani, come Enrico Franceschini). Inoltre, mi sembra più normale usare la voce preceduta da articolo, come avviene per la maggior parte degli altri nomi di eventi (reali o ipotetici): ad esempio, la perestrojka, il global warming (altri due prestiti che indicano scenari complessi).”
Da Brexit deriva anche Brexiter, il termine che indica i sostenitori della Brexit, contrari a qualsiasi cedimento all’UE. Viceversa ci sono Remainer, vale a dire quelli che erano favorevoli a rimanere nell’Ue e che non si sono mai rassegnati alla sconfitta. In particolare, gli scozzesi hanno più volte manifestato il loro malcontento, tanto che il Primo Ministro scozzese Nicola Sturgeon ha twittato di recente:
A lungo si è rischiato il no deal: lo scenario di una Brexit catastrofica, senza un trattato con l’UE che la regolamenti. L’accordo è invece arrivato in extremis, dopo circa otto mesi di trattative. Oltre all’ostacolo della pandemia, i negoziati si sono arenati a lungo su tre questioni: le regole per impedire che le società britanniche possano fare concorrenza sleale a quelle europee (il cosiddetto level playing field), il meccanismo di risoluzione delle controversie e l’accesso dei pescatori europei alle acque britanniche.
Un altro motivo di discussione, in passato, era stato il backstop o “soluzione di salvaguardia”, cioè quel meccanismo inserito nell’accordo sulla Brexit tra Unione europea e governo May per evitare la creazione di un confine rigido tra la Repubblica d’Irlanda, ancora nell’UE, e Irlanda del Nord, fuori dall’Unione a causa della Brexit. Letteralmente “rete o barriera di protezione”, il termine backstop è mutuato secondo alcuni dal baseball e secondo altri dal cricket: mentre nel baseball è il muro o la rete dietro il battitore che evita che la palla finisca fuori dal campo, nel cricket indica una vecchia posizione. La parola è poi passata alla politica dove rappresenta un meccanismo di emergenza che si attiverà solo nel caso in cui, alla fine del periodo di transizione, UE e Regno Unito non riescano a firmare nuovi accordi in grado di garantire un confine non rigido tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Scongiurato il no deal, si è evitata anche la Shop Apocalypse – espressione utilizzata dai giornali inglesi per indicare la possibile penuria di cibo fresco nei supermercati in caso di mancato accordo.
Tornando al termine Brexit, ricordiamo anche le due opzioni: Soft Brexit e Hard Brexit, che indicano un’uscita più o meno morbida dall’Unione: mentre il primo caso prevedrebbe il mantenimento del massimo allineamento possibile fra la Gran Bretagna e l’Unione europea per minimizzare gli effetti negativi sull’economia, la Brexit “dura” implicherebbe l’abbandono del mercato unico e dell’unione doganale, la fine della libertà di circolazione delle persone e la fine della giurisdizione della Corte europea.
A parte la terminologia tecnica che ha caratterizzato le varie fasi delle trattative, i giornali inglesi si sono sbizzarriti a coniare nuove parole, come illustrato da Il Giornale:
“[…] Branxious per gli ansiosi, Bregret o Bremorse per i pentiti, fino alla più grave Brexistential crisis, vera e propria crisi esistenziale causata dai negoziati senza via d’uscita. Il capitolo dedicato al suffisso -exit, poi, fa storia a sé: ormai i sovranisti di ogni Paese UE hanno coniato il proprio termine. Fino agli estremi: qualcuno si è inventato la Trexit, per dare un nome a chi se ne va dagli Stati Uniti perché non sopporta più Donald Trump, e chi ha già coniato la parola Mexit per quando Lionel Messi si ritirerà dal calcio.”
Questo fiorire di neologismi è curioso ma di certo non l’unico nella storia: una cosa simile era accaduta per esempio con il Watergate, lo scandalo che ha portato alle dimissioni del presidente USA Richard Nixon. Da allora, per qualunque scandalo i giornalisti inventano un neologismo che termina per –gate, come nel caso del dieselgate (lo scandalo per la falsificazione delle emissioni di vetture munite di motore diesel del gruppo Volkswagen) e del Russiagate (un’inchiesta giudiziaria nata a seguito di sospette ingerenze da parte della Russia nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali USA del 2016).
Originali e talvolta divertenti, questi neologismi rappresentano però una sfida per il linguista: non potendo fare affidamento su dizionari o altre fonti tradizionali, il traduttore deve ricercare o ipotizzare una soluzione in base all’utilizzo che ne fanno i parlanti. In queste circostanze in cui mancano gli strumenti di lavoro abituali, l’esperienza e l’intuito di traduttori specializzati come quelli di Arkadia Translations possono essere determinanti per la qualità finale dei testi.