Paese controverso dai punti di vista storico e geopolitico, Israele è salito alla ribalta dell’economia internazionale sin dalla sua nascita ufficiale arrivando a presentare un PIL pro capite di primissimo livello e un ecosistema di business, soprattutto in fatto di innovazione tecnologica, secondo a pochi.
In tempi recentissimi è anche citato come esempio virtuoso per aver realizzato la campagna di vaccinazione per Covid-19 più veloce del mondo in proporzione al numero di abitanti, con risultati impressionanti tra cui un calo del 96% su base giornaliera dei casi, del 90% dei sintomatici gravi e dell’85% dei morti, come mostrato da un’analisi dell’esperto di biologia computazionale Eran Segal.
Quello che forse in pochi sanno è che quest’anno Israele ha anche vissuto un periodo di travaglio istituzionale culminato nelle elezioni legislative anticipate che hanno avuto luogo il 23 marzo.
Al netto di qualche punto percentuale di differenza che può o meno rappresentare un indicatore per trend futuri, allo stato attuale delle cose i voti non hanno provocato alcun ribaltone. Il 5 aprile, infatti, il Capo di Stato Reuven Rivlin (l’equivalente del nostro presidente della Repubblica) si è riunito coi leader dei partiti politici e ha incaricato il Primo Ministro già in carica Benjamin Netanyahu di formare il nuovo governo.
Se passiamo invece agli aspetti linguistici, non possiamo non accorgerci di come in un paese così vario la questione politica sia legata a doppio filo con quella culturale, e, di conseguenza, linguistica.
Il dibattito più in auge al momento verte sulla questione dell’arabo, che è parlato stabilmente da una minoranza della popolazione e che è inoltre compresente in varie porzioni del territorio essendo la lingua ufficiale dell’autorità Palestinese. Da questo punto di vista, la questione linguistica passa in secondo piano considerato che le due fazioni si identificano fortemente con la propria lingua, il cui destino dipende quindi direttamente dall’esito della questione geopolitica.
Dal punto di vista invece dell’arabo visto dall’“interno”, ossia della popolazione di lingua e cultura araba che comunque si riconosce a tutti gli effetti come parte della cittadinanza d’Israele, dobbiamo segnalare una storia elettorale piuttosto controversa. Nelle elezioni precedenti a quelle attuali, Netanyahu (che come detto risultò vincitore) si era dimostrato ostile alla minoranza araba, tanto da ricevere la grave accusa di star provando a limitare l’affluenza degli arabi al voto.
Nel periodo di tempo che ha portato alle ultime elezioni, invece, gli esperti hanno segnalato un deciso cambio di rotta nel suo atteggiamento, tanto che nel fronte politico arabo, prima unito nella “Joint Arab List”, è avvenuta una scissione che ha portato alla nascita della “United Arab List”.
Il maggior fattore scatenante di questa scissione è stato proprio (sempre a seconda dei commentatori locali) un ammiccamento da parte della Joint List al Primo Ministro Netanyahu e viceversa, cosa considerata inaccettabile dalle frange più estreme che hanno dato vita appunto alla “United List”.
Se questo all’atto pratico migliora la situazione della minoranza araba, che dal vedersi esclusa dagli schemi elettorali è ora target di sforzi e campagne appositi, il rovescio della medaglia è che strumentalizzazioni della comunicazione e terremoti mediatici sono all’ordine del giorno.
Per non addentrarci nel terreno delle pure speculazioni, lasciamo la questione aperta pur rimanendo coscienti che ci sarebbe molto altro da dire e che dietro ogni angolo si nasconde una diversa possibilità di evoluzione futura.
A ciò si affianca la relativamente nuova serie di sforzi volti ad avere una popolazione funzionalmente bilingue in ebraico e inglese. Grazie all’ingente mole di scambi culturali e affaristici con gli Stati Uniti, infatti, l’inglese fa parte della quotidianità della maggior parte degli abitanti di Israele da anni.
Infine, se l’ebraico è la lingua nazionale e questo non lascia spazio a dubbi, la sua iniziale adozione nasconde però dinamiche più complesse e peculiari che vale la pena di menzionare.
Il cosiddetto “ivrit” (secondo la pronuncia locale), o “Hebrew” in inglese, è infatti l’unico caso al mondo di lingua morta riportata “in vita” con uno sforzo cosciente da parte di un’intera popolazione. Secondo la definizione linguistica una lingua è morta quando non ne esistono più parlanti madrelingua, e l’ebraico ha soddisfatto questo requisito da secoli prima di Cristo fino, praticamente, alla nascita dello stato d’Israele.
Gli usi letterari e religiosi dell’ebraico, infatti, sono stati ingenti e continui dall’antichità ai giorni nostri, ma gli esperti hanno escluso con discreta certezza che dall’anno zero fino agli inizi del 1900 vi sia stato alcun segmento di una popolazione che utilizzasse l’ebraico come lingua madre nella quotidianità.
Come è potuto succedere, allora, che sia passato da zero parlanti madrelingua ai circa 7 milioni attuali? Le ragioni sono essenzialmente due.
Nel momento di scegliere una lingua principale per lo stato d’Israele, tra gli abitanti del paese vi era una grandissima diversità culturale e linguistica, e tra le lingue più diffuse vi erano lo yiddish, il giudeo-spagnolo e l’aramaico, oltre allo stesso arabo e a varie opzioni minoritarie. In questo contesto l’ebraico aveva un vantaggio non indifferente e cioè che l’intera popolazione, pur non adottandolo come lingua madre, comunque lo conosceva e lo utilizzava nelle pratiche religiose e in parte dell’attività letteraria.
La seconda e non trascurabile ragione è il fatto che molti dei leader religiosi e culturali coinvolti al tempo erano convinti che una volta stabilitisi in Israele la migliore scelta di lingua da adottare come principale fosse sicuramente l’ebraico, auspicando che potesse contribuire a rafforzare l’identità nazionale e l’unità.
Non ci spingiamo oltre a questa descrizione fattuale delle principali componenti della questione linguistica in Israele, sperando semplicemente di aver fornito un minimo di contesto e delle chiavi di lettura con cui avvicinarsi a comprenderne l’intricata situazione.
Chiudiamo quindi il nostro articolo in attesa di poter analizzare la relazione tra linguistica e politica in un altro paese se vediamo che l’argomento genera interesse. Faccelo sapere nei commenti qui sotto.